CALABRIA – Oggi la Chiesa calabrese è scesa in campo contro la criminalità organizzata: in una lettera aperta i parroci della delle diocesi di Soriano, Mileto, Nicotera e Tropea hanno chiesto agli uomini della ‘ndrangheta di “convertirsi, deporre le armi e non portare la morte nei nostri paesi”. Qualora la situazione dovesse persistere, proseguono nell’appello che sarà diffuso nelle parrocchie domenica prossima, “reagiremo per amore della libertà, stando sempre dalla parte di chi soffre; di chi sta con la schiena dritta e non si piega; dei commercianti e degli imprenditori onesti che non fanno affari con le organizzazioni mafiose”.
I sacerdoti calabresi sono, in ordine di tempo, gli ultimi di una lunga serie che il grado di “prete coraggio” se lo è guadagnato sul campo. Soprattutto con il lavoro di anni, fatto in silenzio. Ma anche, purtroppo, per essere nel mirino di coloro che vogliono combattere: i mafiosi. Spesso vivono sotto scorta, ma non mollano la presa. Vivono seguendo l’esempio di sacerdoti simbolo come don Pino Puglisi, ucciso a Palermo nel 1993, e don Peppino Diana, caduto a Casal di Principe nel 1994.
Sono molti i religiosi in prima linea contro la criminalità organizzata. Per lo più lavorano con i giovani dei quartieri difficili, togliendoli dalla strada, spiegando loro che la mafia non è l’unico futuro e cercando di farli studiare. Ma alle cosche non va giù che un prete si occupi di certe cose. Per loro la Chiesa non può avere un ruolo sociale, deve limitarsi alla liturgia.
Lo dimostra il volantino di minacce contro il vescovo di Piazza Armerina, monsignor Michele Pennisi, girato a Gela lo scorso febbraio. La “colpa” dell’alto prelato è stata di aver seguito la decisione del prefetto di Enna, che aveva preferito far celebrare il funerale del boss gelese Daniele Emmanuello nella cappella cimiteriale e non nella chiesa Madre della città.
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