RIFLESSIONI – L’anno nuovo è alle porte, cosi la promessa di sostituire alla parola sopravvivenza la parola esistenza, ma nel frattempo un altro detenuto si è tolto la vita. Certo è che del carcere tutti sappiamo tutto, ma a pochi importa qualcosa davvero. Questo vale anche per chi in carcere muore, per chi in galera sopravvive e per chi ci lavora, perché ognuno parla, agisce, dimentica, per ideologia, per appartenenza, di conseguenza ognuno mira al proprio interesse personale, al rafforzamento della propria casta, al male minore da scegliere. E così i morituri non fanno notizia né suscitano pietà: quella è finita da un pezzo nelle carceri italiane. Esaurita la pietà, come la sensibilità, perché la prigione così deve essere: un luogo di morte, in cui ipocritamente è richiesta speranza e riabilitazione. Il carcere e la pena, il carcere e la persona umana, il carcere e gli operatori mai sufficienti, il carcere e la sicurezza, il carcere…..e l’uscita con i piedi in avanti. Un tempo ( fortunatamente superato ) si “evadeva” in questo modo tra rivolte e omicidi, oggi per somma di sofferenza e di abbandono, e seppure la differenza sia abnorme, non saprei quale delle due eredità sia un fardello accettabile. In questa inumanità che allontana e divide, appare pressante una domanda. Si tratta si tratta di stabilire una certezza, non solo quella della pena, troppo spesso usata come nascondimento di ben altre assenze politiche, occorre piuttosto delineare un’altra certezza, quella della vita, della dignità, della speranza. E lo si può fare partendo da un interrogativo, che può apparire anacronistico: a chi il compito di educare? Educare perché e a che cosa e quando?
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