EGITTO – «La rivoluzione di piazza Tahrir è una sorpresa totale, spiegabile solo con un profondo senso di frustrazione spirituale, prima che politica, dei nostri giovani. In 5mila anni di storia, dal Faraone in poi, il popolo egiziano non è mai stato capace di fare altro che obbedire». A rivelarlo è lo scrittore egiziano Osama Habashy, intervistato da IlSussidiario.net nel giorno in cui migliaia di persone sono tornate a protestare di fronte alla sede del Parlamento e della tv di Stato. Musulmano, sposato con una donna italiana, Habashy è autore del romanzo «La stagione triste della farfalla», che descrive il conflitto israeliano-palestinese a partire dalla vita quotidiana delle persone comuni, ebree e arabe, che finiscono travolte dagli eventi politici.
Habashy, la rivolta di piazza Tahrir era stata anticipata da un dissenso manifestato attraverso l’arte e la cultura?
Non è esattamente così, perché nessuno si aspettava la rivoluzione che è stata una sorpresa totale. E’ difficile riuscire a trovare anche solo una riga dei romanzieri egiziani in cui si anticipano gli eventi di questi giorni. Nessuno dei nostri scrittori è riuscito a leggere la direzione in cui stava andando la società.
La protesta di questi giorni è solo politica, o nasce da un malcontento più profondo?
Sicuramente nasce da un fallimento politico del regime di Mubarak, ma esistono motivazioni più profonde. Quanto sta accadendo in questi giorni è una cosa strana. Se guardiamo allo spirito del popolo egiziano, non ha mai avuto l’energia per compiere una rivoluzione del genere. Per 5mila anni non ha mai fatto altro che obbedire, prima ai Faraoni, poi al re, quindi al presidente, fino ai nostri giorni.
Eppure questa volta ha trovato le energie per ribellarsi…
E’ ancora tutto da vedere come andrà a finire, perché finora il regime ha vinto al 70%. Da sempre nella società egiziana le cose funzionano in questo modo. Per secoli, anzi millenni, non è mai riuscita a fare nulla di sua spontanea iniziativa, e questo da un punto di vista spirituale rappresenta un fallimento totale. Ed è a questo che, innanzitutto, si sono ribellati i ragazzi che sono scesi in piazza e nelle strade. Anche se ovviamente ci sono diversi fattori contingenti che hanno giocato un ruolo, dalla diffusione di Internet e di Facebook alla rivolta del pane in Tunisia.
Ma fino a che punto la mentalità aperta di studenti, magistrati e professori che protestano è rispecchiata dalle masse popolari?
Per il momento non è rispecchiata affatto, glielo dico in tutta sincerità. Se guardiamo al numero delle persone che hanno partecipato alle manifestazioni, dal 25 gennaio a oggi, in tutto saranno stati otto milioni. In Egitto ci sono 78 milioni di abitanti, e almeno la metà di loro in questo momento starà pensando: «Mubarak deve restare al potere, quelli che protestano sono dei violenti, disoccupati finanziati da potenze straniere».
Quindi anche da un punto di vista religioso, la maggioranza degli egiziani non è aperta al dialogo come i giovani di piazza Tahrir?
No, la maggior parte delle persone nel nostro Paese si sentono innanzitutto egiziane, a prescindere dalle distinzioni religiose. Penso quindi che il futuro che ci aspetta dopo le proteste sarà più tollerante, basta vedere quanto è accaduto in questi giorni in piazza, con i cristiani che proteggevano i musulmani mentre pregavano e viceversa. La maggioranza degli egiziani è disponibile al dialogo religioso, sia chi ha manifestato sia chi ha deciso di non farlo.
E da dove nasce questa apertura?
Dal fatto che i cristiani sono presenti nel nostro Paese da molti secoli prima della nascita di Maometto. Il dialogo deve partire innanzitutto da questo fatto. E per fare sì che possa proseguire, occorre che tutti i partiti di opposizione entrino a fare parte del governo, ciascuno con il ruolo che gli si addice. Evitando per esempio che ai Fratelli musulmani vada il presidente o il capo del governo, ma offrendo loro un ministero adatto alle loro caratteristiche.
Intanto però le proteste non accennano a placarsi…
Penso che la rivoluzione ci riserverà molte altre sorprese. Il sistema militare su cui era basato il regime continuerà a proteggere il suo potere militare attraverso la politica. E dopo la transizione, che durerà per sei-sette mesi, Omar Suleiman punterà a succedere a Mubarak restando in carica per due mandati.
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