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L’INIZIO DELL’ANNO LITURGICO: LA CORONA CHE PLASMA IL TEMPO

ANNO LITURGICO – L’anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, “un poema – come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia – al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra”. Esso è la trama dei misteri di Gesù nell’ordito del tempo. Così, lungo il corso di ogni anno, la Chiesa rievoca gli eventi della sua nascita, della sua morte e della sua risurrezione, così che il susseguirsi dei giorni sia tutto improntato e sostenuto dalla memoria di lui. Una memoria d’altronde che, se fa volgere lo sguardo a quando quegli eventi si sono compiuti, subito fa tendere lo sguardo sul Presente, cioè sul Cristo vivente, che sovrasta e include in se stesso tutta la storia.

Facendosi uomo, il Figlio di Dio si ritrova, come ognuno di noi, “datato” e coinvolto nei confini della cronologia e, perciò, di un passato irreversibile. È l’aspetto temporale e irripetibile dei suoi misteri, che divengono l’oggetto del ricordo che li rievoca. Così nell’anno liturgico, con immensa pietà, ripassano i diversi momenti rievocati nei vangeli, e di cui è stata intessuta l’esistenza di Gesù e che non si rinnovano. E tuttavia ognuno di essi era una mediazione di grazia e concorreva a “creare” il Signore e la sua opera di salvezza. Gesù non rinasce storicamente ogni volta che la Chiesa ne rievoca il Natale, ma quella natività fu una mediazione e un avvenimento di grazia. Come lo furono tutte le altre manifestazioni della vita terrena del Figlio di Dio: ossia, come direbbe Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, III, 27, prologo), “tutto quello che il Figlio di Dio incarnato fece o patì nella natura umana a lui unita” (ea quae Filius Dei incarnatus in natura humana sibi unita fecit vel passus est): tutto quello che concorse a formare il Cristo redentore. Nello svolgimento dell’anno liturgico rimeditiamo su quei misteri, miriamo ad averne un’intelligenza più profonda, e soprattutto li ritroviamo col loro senso e con il loro valore nel Signore vivente glorioso, sul quale sono fissati gli occhi della fede e l’ardore del cuore. E in questo senso si può affermare che, narrati e tramandati d’anno in anno, non invecchiano e non si consumano mai. Ecco perché è giusto ritenere che, mentre si dispongono e si uniscono a formare la suggestiva “corona della benignità dell’anno di Dio” – corona benignitatis anni Dei, come Paul Claudel intitola il suo splendido poema sull’anno liturgico – essi sono destinati in certo modo a rinnovarsi nella Chiesa. L’anno liturgico – scriveva il cardinale Schuster – “rappresenta come l’unità di misura della vita della Chiesa sulla terra. Questa vita a sua volta è la continuazione della vita di Gesù Cristo”. Vale per esso quel che egli diceva della preghiera liturgica: “Direttamente sgorga dal cuore della Chiesa orante”. I giorni che lo formano sorgono dall’amore della Chiesa ininterrottamente assorta a contemplare e a incontrare il suo Signore, istituendo con lui una cronologia o un corso annuale nuovo e inedito, a servizio di Cristo, per mezzo del quale, nel quale e per il quale tutto è stato creato.

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PERCHE’ IL REGNO DI DIO, CHE E’ GIA’ FRA NOI, NON AVRA’ MAI FINE?

RIFLESSIONE – Dio offre a tutti gli uomini il suo Regno, li invita tutti alle grandi nozze del Figlio suo che venendo al mondo ha sposato la natura umana; nozze che aprono agli uomini la via della salvezza perché Cristo, lo Sposo, per mezzo della sua incarnazione ricondurrà gli uomini alla casa della vita, al Regno del Padre. La salvezza è il grande banchetto nuziale imbandito per tutta l’umanità; unica condizione per parteciparvi è accettare l’invito, tanto liberale quanto assolutamente gratuito. Ma come gli invitati della parabola, molti uomini si chiudono a questo invito e lo respingono ripetutamente. La salvezza è dono e chi non l’accetta vi si esclude da sé; è questo il significato della perdizione eterna, adombrata dal castigo inflitto a quanti hanno disprezzato l’invito alle nozze. Al loro posto vengono invitati altri e l’evangelista Luca specifica che sono i “poveri, storpi, ciechi, zoppi” (Lc.14,21); essi si affrettano al banchetto e rappresentano coloro che, consapevoli della propria indigenza, avvertono il bisogno di essere salvati e intuiscono che solo Dio può salvarli. La loro povertà li apre al dono divino.

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TERRA SANTA LIVE! – LUNEDI’ 21 GIUGNO POMERIGGIO IL GETSEMANI E LA CHIESA DEL “PATER NOSTER”.

VOGLIAMO LA PACE IN TERRA SANTA – IL GETSEMANI Più che “orto degli ulivi”, la parola Getsemani per sé significa “pressoio o frantoio per l’olio”. Si trattava comunque di un terreno ricco di ulivi, poco fuori Gerusalemme, ai piedi del monte detto anch’esso “degli ulivi”. Negli ultimi giorni trascorsi a Gerusalemme, Gesù «di giorno insegnava nel tempio, di notte usciva e pernottava all’aperto sul monte degli ulivi», annota Luca (21,37); Giovanni ricorda che Giuda conosceva il posto perché Gesù vi si recava con i suoi discepoli (Gv 18,2). Ma quella sera, dopo l’ultima Cena, Gesù sapeva a che cosa andava incontro, e la sua natura umana rifuggiva, come la nostra, dal dolore e dalla morte, perché… il Padre ci ha creati per la vita e per la gioia a cui egli vuol condurre i suoi figli. E Gesù trema, il suo organismo si sconvolge fino a provocargli un sudore di sangue, e prega il Padre di allontanare quello che sta per accadergli; però accoglie la sua volontà. E la volontà del Padre non erano i tormenti del Figlio, ma l’obbedienza, la fiducia e l’amore: ciò che l’umanità gli aveva negato fin dagli inizi. L’amore di Gesù sarebbe stato più forte del tradimento, dei tormenti e della croce. E il Padre risponderà a questo amore con la risurrezione.

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