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TWO LOVERS. LA STORIA D’AMORE CHE HA INCANTATO IL FESTIVAL DI CANNES

RECENSIONE – Su James Gray sembra gravare la maledizione dell’autore. Sarà perché realizza le sue opere prendendosi lunghe pause di riflessione (quattro film in quindici anni), fatto sta che alla fine sembra aleggiare intorno a lui un certo alone a metà tra il mistero e la sopravvalutazione. «Little Odessa», «The Yards», «I padroni della notte» e adesso «Two Lovers» sono lì a testimoniare un lavoro scrupoloso, talvolta imprevedibile, ma non esattamente al di sopra della media. Diviso tra il noir e il melodramma romantico/esistenziale, Gray agisce sempre all’interno di un genere. Quale che esso sia, per arrivare a risultati di eccellenza richiede comunque un approccio originale o un mestiere a prova di bomba. «Two Lovers», che appartiene al settore del melodramma, lascia forti dubbi su ciò che lascia intravedere e ciò che è in realtà. La tentazione della lettura interamente simbolica è forte, ma non riesce a far dimenticare che di storie come questa è pieno l’archivio del cinema. Ci si domanda, insomma, se il lavoro di Gray vada in direzione contraria al genere (se cioè ne tenti una rilettura critica) o se, non avendone la forza o gli strumenti, preferisca adagiarsi nella tradizione lanciando qua e là segnali di novità. A Brighton Beach (due passi da Coney Island) Leonard vive un’esistenza fortemente tormentata. Ebreo, di famiglia molto tradizionale, è reduce da svariati tentativi di suicidio susseguenti a una cocente delusione amorosa. La sua prospettiva è quella di subentrare al padre nell’attività commerciale (una tintoria) e di vivere un’esistenza abitudinaria e tranquilla. In questa direzione lo porterebbe l’amore per Sandra, figlia di un altro tintore che sta per rilevare i locali dell’azienda paterna. Ma di fronte a casa sua abita Michelle, che ha una relazione con un uomo sposato e vive all’insegna dell’illusione e dell’angoscia. L’incontro potrebbe essere fatale.

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«THE WRESTLER» DI DARREN ARONOFSKY, PREMIATO A VENEZIA CON IL LEONE D’ORO

RECENSIONE – Tanti film sul pugilato, nessuno sul wrestling. Il punto è che i due sport non hanno così tanti punti di contatto e che il wrestling vive comunque di una fama quasi circense, di spettacoli preparati a tavolino con mosse concordate, di legnate che se fossero vere ammazzerebbero un toro, di folklore, di abbigliamenti più che pittoreschi. Insomma, di un alone mitico che basta poco a ricondurre sulla Terra. Si ricorderà che anche Rocky Balboa, all’apice della carriera, si prestava a salire sul ring del wrestling per un’esibizione estemporanea. Tanto più inatteso arriva il successo a sorpresa di «The Wrestler» di Darren Aronofsky, premiato a Venezia con il Leone d’Oro e ignorato nella notte degli Oscar, quando forse Mickey Rourke ci aveva fatto un pensierino. A cose fatte, non è facile spiegarsi il motivo di un simile exploit. Da una parte un attore ormai relegato in ruoli da caratterista che improvvisamente ritrova, con la complicità di fortissimi richiami autobiografici, lo smalto del mattatore. Dall’altra un regista che, venendo da film come «? – Il teorema del delirio», «Requiem for a Dream» e, soprattutto, «L’albero della vita», si fatica a ritenere capace di miracoli. La realtà, a nostro parere, è che «The Wrestler» è un film convenzionale reso di livello superiore da due magnifici protagonisti. Randy Robinson, detto «the Ram» (l’Ariete), è un ex-campione di wrestling ridotto dall’età e da vari acciacchi ad esibirsi in combattimenti di basso livello. 

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CINEMA – IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON. UOMO CHE NASCE VECCHIO E RINGIOVANISCE FINO A MORIRE.

RECENSIONE – Il racconto di Francis Scott Fitzgerald da cui è tratto «Il curioso caso di Benjamin Button» è lungo venti pagine e narra senza fronzoli di un uomo che nasce vecchio e ringiovanisce fino a morire neonato. Il film che vi si è ispirato, sceneggiato da Eric Roth e diretto da David Fincher, dura due ore e quaranta, ha ottenuto tredici nomination all’Oscar e, francamente, sembra più interessato al kolossal sentimentale che alla durezza dell’assunto originale. Niente di male. Peccato soltanto per una serie di forti implicazioni esistenziali che si trasformano in una storia d’amore in giro per il mondo. Ecco, «Il curioso caso di Benjamin Button» è il tipico film che deve il suo successo quasi interamente al pubblico femminile, ben disposto a sognare, a sorridere e a commuoversi quando gli ingredienti sono dosati con accortezza e astuzia. Così David Fincher continua a far rimpiangere la durezza di «Seven», mai più ritrovata in drammi o thriller talvolta meritevoli di altri approfondimenti.

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CINEMA – FROST/NIXON IL DUELLO FILM ISPIRATO ALL’OMONIMO DRAMMA TEATRALE DI PETER MORGAN.

RECENSIONE – Se pensavate che la famosa ammissione pubblica di colpa (l’unica) fatta da Richard Nixon dopo il Watergate e le dimissioni da Presidente durante la lunga intervista televisiva rilasciata al giornalista inglese David Frost nell’estate del 1977 discendesse da spinte ideali, principi etici o ansia di giustizia, «Frost/Nixon il duello» di Ron Howard provvederà a correggere ogni eventuale ansia idealista. Ispirato all’omonimo dramma teatrale di Peter Morgan (che ha anche sceneggiato il film), il lavoro di Howard è in questo senso spietato nell’affermare a chiare lettere che tutto, proprio tutto, è stato fatto per l’audience. Diversamente da Oliver Stone, che con «W.» ha rischiato molto soprattutto per la freschezza dell’argomento, Howard non rischia niente e, essendo passati trent’anni dagli avvenimenti, ha la possibilità di riflettere pacatamente e di esaminare il tutto con il necessario distacco, favorito anche dal fatto che gli eventi narrati sono ormai alla luce del sole e non prevedono rivelazioni sconvolgenti. Mantenendo intatta l’impostazione teatrale, quindi puntando tutto più sulla tensione dialettica che sulla necessità di una messa in scena complessa, Howard (che di solito è bravo in funzione della qualità della sceneggiatura che si trova a filmare) aveva una sola possibilità di fallire, affidandosi cioè agli attori sbagliati.

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CINEMA – REVOLUTIONARY ROAD MEZZO SECOLO PER AVERE UNA RIDUZIONE CINEMATOGRAFICA

RECENSIONE – Richard Yates ha scritto «Revolutionary Road» nel 1961, ottenendo (non a caso) il plauso di Tennessee Williams, ma nessun riconoscimento ufficiale. Paragonato a Dreiser e al suo «Una tragedia americana», ha atteso quasi mezzo secolo per avere una riduzione cinematografica lungamente inseguita e mai concretizzata. Non è difficile capire perché: nella vicenda raccontata da Yates non c’è niente, proprio niente di politicamente corretto. L’America degli anni Cinquanta, piena di sogni e di illusioni, è messa a nudo in tutta la sua disperata ricerca di un benessere e una stabilità che dovrebbero corrispondere alla felicità ma che si rivelano invece illusori. L’attore si toglie la maschera e rivela il volto di un uomo che nel lavoro, nel guadagno e nella famiglia non trova le motivazioni per lottare e vincere. In questo senso, anche se il paragone potrebbe risultare riduttivo e schematizzante, Yates si pone come l’anti-Disney. Non quello del cinema d’animazione: il Disney delle commedie familiari dove, qualunque fosse il problema, tutto si risolveva intorno alla tavola da pranzo intonando filastrocche del genere Bibidi Bobidi Bu. In «Revolutionary Road», invece, niente si risolve in senso positivo ed ogni sogno lascia il posto alla freddezza della realtà.

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CINEMA – FILM: VICKY CRISTINA BARCELONA. LE SOLITE STRAVAGANZE DI WOODY ALLEN

RECENSIONE – Anche se i luoghi in cui ambienta i suoi film ci dicono che Woody Allen ha da tre anni fatto emergere la propria metà europea, in realtà resta cittadino del mondo. Profondamente convinto che gli esseri umani (sé compreso) non siano altro che patetici pupazzi in mano al destino e che, per quanto possano essere convinti di fare delle scelte, finiscono sempre per seguire percorsi obbligati che li lasciano pieni di domande e privi di risposte, Allen bilancia il proprio percorso tra dramma e commedia alternando opere ispirate ad altre di riporto. «Vicky Cristina Barcelona», con tutta la buona volontà, appartiene alle seconde. E non tanto per difetti di psicologia o tecnica, perché i dialoghi (quindi l’interiorità dei personaggi) e i suoni e i colori appartengono comunque ai piani alti della scrittura cinematografica e dello stile compositivo: è proprio che la storia raccontata dal film mostra un andamento orizzontale che impedisce qualunque colpo di genio. E Woody Allen, che ama scherzare con i luoghi comuni, questa volta non scherza abbastanza da non farli sembrare proprio ordinari.

Vicky e Cristina, amiche americane in vacanza a Barcellona, incontrano il pittore Juan Antonio, reduce da una separazione burrascosa, seduttore impenitente e naturalmente ricco di fascino e di estro. Mentre Vicky, in procinto di sposarsi, rifiuta a priori l’avventura, Cristina ci si butta a capofitto. Il ricomparire della ex di Juan Antonio, Maria Helena, complica le cose. Alla fine, dopo che anche Vicky ha ceduto al fascino ispanico, tutti riprenderanno le loro strade. In un certo senso, come se nulla fosse successo.

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