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SCUOLA – PARITARIE A RISCHIO: TRE MOTIVI PER ACCOGLIERE L’ALLARME DEI VESCOVI DEL TRIVENETO

SCUOLA – L’allarme lanciato dai Vescovi del Triveneto per la situazione e le prospettive delle scuole paritarie nasce da un rischio reale: la chiusura di almeno un terzo di queste scuole. Chiusura annunciata e che si sarebbe già verificata senza lo sforzo delle famiglie che con un grosso impegno hanno permesso la sopravvivenza di queste scuole, riconoscendo in esse un bene primario della comunità. La presenza sul territorio veneto è infatti radicata, con ben 1.098 scuole dell’infanzia (Fism) e di 290 scuole primarie, medie e superiori (Fidae), frequentate rispettivamente da 84.707 e da 32.615 studenti (fonte Conferenza episcopale del Triveneto) Non è solo questo, il rischio di chiusura si estende anche ai Centri di formazione che si trovano in grosse difficoltà economiche, in quanto una deliberà regionale 2301 del 28 luglio 2009 prevede in accordo con il Miur che i corsi di formazione possano anche essere erogati dagli Istituti Professionali Statali. A questo punto volendo superare lo scoglio di una semplicistica e banale lettura in termini ideologici o economici, questo intervento suggerisce altre chiavi interpretative.

Applicazione del principio di sussidiarietà

Se rileggiamo gli artt. 33 e 34 della Costituzione con riferimento ai temi del diritto all’istruzione (art.34 Cost.) e della parità scolastica (art. 33, commi 3 e 4) alla luce del nuovo Titolo V, si impone una rivisitazione dei principi contenuti nella Prima parte della Costituzione almeno sotto due diversi profili:

a) riguardo al principio di sussidiarietà introdotto dall’ultimo comma dell’art.118;

b) in relazione al diverso riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di istruzione. Non c’è dubbio che l’applicazione più significativa del principio di sussidiarietà introduce il concetto di “sistema integrato” (pubblico-privato) di istruzione. In tale sistema nulla vieta che le risorse pubbliche potrebbero essere destinate a scuole statali e private, rendendo così desueta la norma costituzionale che fa divieto di finanziamento alle scuole private.

Investire nell’educazione

L’ultimo documento OCSE sulla scuola chiede ai governi di investire nell’educazione, e non tanto o non solo in termini economici, quanto nell’intraprendere una strada che porti la scuola italiana a rispondere alle esigenze di formazione dei giovani e alla valorizzazione dei loro talenti. L’attuale contingenza economica impone una razionalizzazione della spesa pubblica in generale per evitare gli sprechi. È inevitabile che questo riguardi anche la spesa per la scuola pubblica, statale o paritaria che sia. Razionalizzare la spesa non deve però portare all’applicazione di tagli indiscriminati, soprattutto in un settore così delicato ed importante come quello dell’educazione: nessuno può pensare ad uno sviluppo culturale, sociale ed economico del Paese, non investendo nella scuola. Certo la spesa deve essere finalizzata alle reali esigenze della collettività, abbattendo i costi inutili e incrementando le spese produttive. Può questo criterio di opportunità contingente e di buon senso essere applicato anche alla scuola? Sì se si introducono meccanismi di controllo che vanno dalla tracciabilità delle risorse economiche ed umane assegnate alle scuole, statali o paritarie, al monitoraggio dei processi, fino alla valutazione dei risultati in relazione al rapporto costi/benefici, valorizzando le buone pratiche e favorendone la diffusione e la contaminazione. Questo è un buon investimento per la scuola pubblica.

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GLI ITALIANI IN FILA PER UN PASTO. 3 MILIONI DI FAMIGLIE VARCANO LA SOGLIA DELLA POVERTA’! VERGOGNA!

notiziaROMA – La contestazione dei Papaboys attraverso i siti web ed i gruppi su Facebok a nostra disposizione è appena iniziata, obiettivo chiaro: creare un movimento neanche troppo silenzioso e pronto a scenere in piazza se servisse, che porti alla riduzione degli ‘stipendi vip’ quelli cioè (con fior fior di benefit) di politici, personagi tv e sportivi. E’ possibile che sia solo un’utopia? Noi pensiamo di no, e non abbiamo voglia di fare passi indietro! Il 4,4% delle famiglie residenti, vale a dire tre milioni di italiani, vive sotto la soglia di povertà alimentare. È questo il dato principale che emerge dal rapporto “La povertà alimentare in Italia. Prima indagine qualitativa e quantitativa” presentato in Campidoglio, condotto su dati del Banco alimentare da Fondazione per la Sussidiarietà – in collaborazione con l’Università Cattolica e Bicocca – e sostenuto da Banca Prossima, Banca del gruppo Intesa Sanpaolo e Nestlè. Secondo la ricerca, una famiglia di due persone viene considerata povera se ha una spesa per cibo e bevande, in un mese, inferiore ai 222,29 euro. Questo importo (che serve ad acquistare beni primari come pane, pasta e carne) costituisce il limite minimo individuato su base nazionale, ma subisce delle oscillazioni se si considerano le diverse aree geografiche della Penisola. Per tenere conto del differente costo della vita, la ricerca ha infatti individuato diversi indici a livello regionale: così le soglie di povertà variano a Nord tra i 233-252 euro, al centro tra i 207-233 euro e nel Mezzogiorno tra i 196-207 euro.

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http://www.papaboys.it/news/read.asp?id=2945

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