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SCONFIGGERE L’AIDS NEI PAESI POVERI: LA STORIA DI SIAMA, SALVATA DAI FARMACI A BASSO COSTO

DAL MONDO (Roma) – L’accesso universale alle cure anti-Hiv oggi è un obiettivo possibile. Lo ha sottolineato Medici Senza Frontiere, ieri, nel giorno in cui a Roma si è aperta la Conferenza internazionale sull’Aids. Negli ultimi dieci anni, grazie alla diffusione della versione generica dei farmaci antiretrovirali, è stato possibile abbattere i prezzi delle terapie ed espandere rapidamente i programmi di cura anche laddove non si credeva possibile. Tuttavia – denuncia l’organizzazione – oltre ad aver sensibilmente ridotto gli stanziamenti, oggi i Paesi ricchi stanno agendo per avvantaggiare in maniera sleale le aziende farmaceutiche che producono prodotti sotto brevetto, troppo costosi. Al microfono di Paolo Ondarza, la toccante testimonianza di Siama Abraham Musine, promotrice della salute per Msf in Kenya:

R. – My name is Siama Abraham Musine and I’m 36 years…
Mi chiamo Siama Abraham Musine ed ho 36 anni. Sedici anni fa ho scoperto, attraverso il test, di essere sieropositiva. Ricordo che ho iniziato a stare molto male e, nel giro di poco tempo, tutti i membri della mia comunità, della mia famiglia hanno cominciato a dirmi che sarei morta molto presto e che avrei fatto vergognare la famiglia, perché tutti i membri della comunità avrebbero saputo che sarei morta perché sieropositiva. Mi preparavano per un percorso molto rapido alla morte, perché questo è, più o meno, il pregiudizio che si ha riguardo la malattia. Quando mi sono trovata in ospedale, mi è stato detto che esisteva una terapia anche per l’Hiv, ma purtroppo, però, non potevo permettermela in quel periodo, perché bisognava pagare per fare le terapie anti-Hiv. Nel 2004, sono venuta a sapere che Medici Senza frontiere offriva queste terapie nello slum di Kibera e quindi ho deciso di recarmi lì per ricevere questo trattamento. Quando sono arrivata a Kibera ero dimagrita, stavo davvero molto male. Sono bastati due mesi e non solo il mio stato di salute, ma anche il mio atteggiamento nei confronti della vita è cambiato notevolmente. Sono riuscita a parlare con mia madre e l’ho convinta che quello che stavo facendo era un percorso molto buono. Da quel momento, mia madre ha cominciato a sostenere me e anche tutte le altre famiglie della comunità che avevano problemi simili al mio.

D. – Lei, poi, ha deciso di mettere a frutto la sua esperienza di vita ed infatti oggi è promotrice della salute nelle comunità. Porta la sua testimonianza e si adopera per chi è affetto da Hiv…

R. – I’m proud to make part…
Sono orgogliosa di far parte di quel gruppo di persone che dimostra quanto i farmaci generici siano efficaci. Se dopo 16 anni, da quando ho scoperto di essere sieropositiva, sono ancora viva, attiva e produttiva, sicuramente i farmaci generici funzionano. Penso a me stessa e vedo come sono in grado di costruirmi la casa, di badare a me stessa, sostenermi, mantenermi, pagare gli studi a mio figlio. E non solo: lavoro nella mia comunità per la promozione della salute. Tutto questo lo devo ai farmaci generici, che contribuiscono a ridare una vita e un futuro alle persone. E questo, per me, significa avere un futuro, avere una vita.

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IL DOLORE NELLE RELIGIONI MONOTEISTE. QUALI SPIEGAZIONI OFFRE LA FEDE AGLI UOMINI CHE SOFFRONO

ROMA – Il dolore, tema fra i più universali, visto nell’ottica della scienza, della filosofia e delle religioni. Questo lo scopo del colloquio messo in piedi lo scorso anno dalla facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Di quell’incontro, nato anche per tracciare le dimensioni del dolore cronico (tanto ampie da avere pesanti risvolti socio-economici in termini di perdita di lavoro e comparsa di depressione) sono stati pubblicati finalmente gli atti. A presentarli al pubblico, alcuni giorni fa, tre esponenti – ognuno a proprio modo – delle tre grandi religioni monoteiste, per raccontare come il Cristianesimo, l’Islam e l’Ebraismo risolvono la questione della sofferenza nella vita degli uomini: Gaspare Mura (docente di Filosofia alle Pontificie Università Urbaniana e Lateranense), Khaled Fouad Allam (docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste) e David Meghnagi (docente di Psicologia della Religione e di Pensiero Ebraico).

Premesso che «la sofferenza appartiene alla vicenda storica dell’uomo – come ben spiegò Giovanni Paolo II nel 2000, in occasione del Giubileo degli ammalati -, il quale deve imparare ad accettarla e superarla», è vero che le risposte che le tre religioni monoteiste danno al quesito del dolore, «convergono tutte – per Gaspare Mura – intorno ad una figura simbolica, quella di Giobbe». «La ragione per cui ci si riannoda al Libro di Giobbe è che questi non è un personaggio storico ma è figura di narrazione simbolica, è un pagano che non appartiene ad alcuna determinata tradizione religiosa». In altri termini, «Giobbe è “l’uomo” che, nella nudità della sua esistenza, pone le supreme questioni sul dolore a rappresentanza di ogni uomo, di ogni epoca e di ogni cultura». Ulteriore elemento, è che Giobbe non pone questioni astratte intorno al dolore, non domanda come i filosofi il “perché delle cose”, «soprattutto Giobbe mostra che non esiste nessuna tecnica, nemmeno quella terapeutica o psicoanalitica, capace di rispondere al senso esistenziale profondo del dolore». E così, «il fedele dell’Islam vede in Giobbe – continua Mura – la pazienza con cui il vero credente deve accettare dall’Onnipotente non solo i beni, ma anche i mali che nella sua imperscrutabile volontà gli assegna per metterlo alla prova e premiarlo della vittoria; e soprattutto vede nella figura di Giobbe anche un invito a tutti coloro che sono vicini ad un uomo che soffre, a farsi compassionevoli, ad esercitare la virtù della bontà, dell’assistenza, della pietà, cosicché il dolore di uno possa tornare a beneficio di tutti». «Da Ferdinand de Saussure – spiega poi Allam – sappiamo che la lingua forma la coscienza. Possiamo dunque ricercare le forme verbali che indicano una situazione di dolore nel Corano, perché attraverso esse possiamo riconoscere la semantica del dolore nell’Islam e dunque la percezione che i musulmani hanno di quella esperienza». Non si dice «io sono malato» ma semplicemente «malato», come ad indicare il dominio della malattia sul soggetto. «Si nota come qui l’individuo perda la sua autonomia, perché tutto risulta rimesso alla volontà divina».

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