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BENEDETTO XVI: “LA PREGHIERA È UNA LOTTA CON DIO CHE SI VINCE ARRENDENDOSI AL SUO AMORE”

BENEDETTO XVI (Città del Vaticano) – Il Papa durante l’udienza generale in Piazza San Pietro di stamani ha proseguito la sua catechesi sulla preghiera spiegando il racconto biblico della lotta di Giacobbe con Dio al guado dello Yabbok, di notte: la Chiesa – ha detto – “ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza”. “La preghiera – ha proseguito il Pontefice – richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio avversario e nemico, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile”. Una lotta – ha aggiunto – che “non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio”. “Tutta la nostra vita – ha concluso – è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore”. Di seguito il testo della catechesi: 

Cari fratelli e sorelle,

Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio un po’ particolare della storia del Patriarca Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq.

Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo – che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi – diventa per lui una singolare esperienza di Dio.

La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo migliore, dunque, per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica “un uomo” in modo generico, “uno, qualcuno”; si tratta di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel “qualcuno” sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio.

L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio infatti Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere. 

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IL PAPA ALL’UDIENZA GENERALE: LA FEDE SI ALIMENTA CON LA PREGHIERA E UNA VITA MORALMENTE COERENTE

CITTA’ DEL VATICANO – All’udienza generale in Aula Paolo VI, Benedetto XVI si è soffermato sulla figura del gesuita olandese San Pietro Canisio, tra i protagonisti del Cinquecento cattolico, in particolare in terra tedesca. Il Papa ha ribadito che la vita cristiana cresce grazie alla preghiera e ad una profonda amicizia con Gesù. Quindi, ha invitato i fedeli a seguire, come San Pietro Canisio, una condotta di vita moralmente coerente per vivere con fedeltà la propria adesione a Cristo.

San Pietro Canisio ci insegna che un “autentico evangelizzatore è sempre uno strumento unito” con Gesù e con la Chiesa: così, Benedetto XVI ha messo l’accento sull’eredità lasciata dal Santo gesuita e dottore della Chiesa che fu chiamato a rivitalizzare la fede cattolica in risposta alla riforma luterana. Un impegno “quasi impossibile”, ha ricordato il Papa, che portò San Canisio a fondare numerosi collegi gesuiti in Germania ed ad intervenire alla sessione finale del Concilio di Trento. Ha così rammentato come per il Santo solo con la preghiera costante si può vivere un’intima amicizia con Gesù:

“Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa”.

La sua esortazione a mettere la preghiera al centro della vita di fede, ha quindi soggiunto, è stata riproposta autorevolmente dal Concilio Vaticano II, in particolare nella Costituzione “Sacrosanctum Concilium”:

“La vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui”.

Negli anni difficili della Riforma protestante, ha rilevato il Papa, San Canisio “ha distinto l’apostasia consapevole e colpevole dalla perdita di fede incolpevole”. Ed ebbe a dichiarare che “la maggior parte dei tedeschi” che passarono al protestantesimo “erano senza colpe”. Quindi, ha sottolineato quanto sia attuale l’esempio che San Pietro Canisio ci ha lasciato con la sua vita:

“Egli insegna con chiarezza che il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo”.

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