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FOIBE – ZECCHI: ECCO PERCHÉ ABBIAMO TRADITO LA MEMORIA DEL NOSTRO POPOLO

ITALIA – «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra». Fa un’operazione di verità storica, la legge firmata nel 2004 dal presidente Ciampi, riabilitando un popolo distrutto dall’odio etnico e politico. Nelle foibe del Carso trovarono la morte migliaia di italiani, vittime della violenza perpetrata dai partigiani comunisti di Tito tra l’autunno del ’43 e il giugno del ’45. Dopo di loro fu il dramma di quei 350mila italiani che, fino a tutti gli anni Cinquanta, dovettero fuggire dall’Istria e dalla Dalmazia per non subire le violenze, l’emarginazione, le confische dell’esperimento sociale comunista.

Sono queste le vicende che fanno da sfondo a Quando ci batteva forte il cuore, l’ultimo romanzo di Stefano Zecchi. «Il ricordo è un fatto principalmente educativo – dice Zecchi al sussidiario -. Per continuare a esistere dev’essere legato al senso di un’appartenenza, di una tradizione, al modo in cui questa prende importanza nel presente. Serve a non farci diventare degli infedeli, infedeli a ciò che di importante è stato nella nostra vita, personale e collettiva».

A suo modo il 10 febbraio è anch’esso un «giorno della memoria», che però a differenza di altre date più popolari è molto meno nelle corde dell’opinione pubblica.

Di questa vicenda tragica non si è mai voluto parlare, innanzitutto perché si sono voluti nascondere i crimini dei comunisti e poi tutta una serie di altre compromissioni di tipo politico. Non si è mai voluto riflettere sul fatto, drammatico e impressionante, che oltre 350mila italiani, senza contare quelli che sono stati trucidati, hanno rinunciato a tutto per rimanere italiani, e una volta arrivati in patria sono stati trattati come delinquenti e fascisti. Anche questa è la storia della nostra repubblica.

Ha parlato di convenienze politiche. Quali?

Quelle della realpolitik. Siamo in presenza di una tragedia legata al fascismo, che in un certo senso ne rappresenta la causa, ma la cui comprensione storica viene poi ostacolata dal patto tra comunisti e democristiani. Togliatti, in modo esplicito, da comunista qual era voleva che la Venezia Giulia, l’Istria, Fiume e la Dalmazia fossero annesse alla Jugoslavia. La Dc, con De Gasperi in testa, faceva fatica a controbattere a questa tesi e non voleva che si facesse il plebiscito, come chiedevano gli istriani, perché temeva che il Trentino-Alto Adige facesse prima o poi una richiesta analoga. Il silenzio è continuato con il trattato di Osimo e fino alla metà degli anni Settanta. Una storia su cui non si è mai voluto alzare il velo.

È questo lo sfondo del suo romanzo. Quanto c’è di autobiografico in Quando ci batteva forte il cuore?

Per quanto mi riguarda è soprattutto un romanzo, anche se come ogni romanzo risente di una serie di suggestioni, emozioni, visioni, conoscenze. Ho voluto fare la storia di un padre e di un bambino, raccontare l’importanza dell’educazione là dove la vita diviene dramma. Il tema mi stimolava: quand’ero assessore a Milano partecipavo alle iniziative della Giornata del ricordo, potevo conoscere da vicino le associazioni e la loro memoria storica, che mi appariva di una drammaticità impressionante. Mia nonna poi era triestina e ricordo bene le storie che mi raccontava. L’ultima parte del romanzo (padre e figlio scappano dall’Istria e si stabiliscono a Venezia, ndr) contiene cose che io stesso ho visto con i miei occhi… Se mette insieme tutto questo, ecco che nasce il romanzo.

La vicenda narrata nel romanzo tocca da vicino, oltre che la questione della memoria, anche quella dell’identità italiana. Cosa vuol dire per lei essere italiano?

Non è qualcosa di acquisito una volta per tutte. Ha richiesto un percorso, una maturazione. Per me essere italiani significa appartenere a una storia, a una cultura, a una tradizione. Sento di appartenere molto più ad una tradizione culturale che ad una tradizione politica. È più un fatto di sentimenti che una faccenda statuale o istituzionale.

C’è un problema che tocca la memoria dei popoli e di cui si è parlato di recente anche a proposito della Shoah. Che cos’è che a distanza di tempo «salva» il ricordo e gli permette di sopravvivere alle generazioni?

Il ricordo è un fatto principalmente educativo, e dunque culturale. Per continuare dev’essere legato al senso di un’appartenenza, di una tradizione, al modo in cui questa prende importanza nel presente. Per guardare al futuro dobbiamo pensare al passato dove abbiamo le nostre radici. Ho dedicato il romanzo a mio figlio perché ricordare serve a non farci diventare degli infedeli, infedeli a ciò che di importante è stato nella nostra vita. Per ricordare serve una trasmissione di conoscenze che avviene normalmente attraverso persone, incontri, letture. Famiglia e scuola sono determinanti, o meglio lo erano. Ora hanno abdicato.

continua su: http://www.papaboys.it/news/read.asp?id=4311

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AMERICA/PERU’ – I Vescovi della Selva peruviana preoccupati per l’emarginazione e la povertà delle popolazioni indigene

Lima (Agenzia Fides) – I Vescovi delle giurisdizioni ecclesiastiche della Selva peruviana (i Vicariati Apostolici di San Ramón, Pucallpa, Puerto Maldonado, San José del Amazonas e Jaen), al termine dell’Incontro di Pastorale Indigena della Selva del Perù, svoltosi a Lima, hanno diffuso un comunicato in cui esprimono la loro preoccupazione per le popolazioni indigene, spesso costrette all’emarginazione e alla povertà. All’Incontro hanno preso parte 52 persone, tra cui i Vescovi dei singoli Vicariati della Selva peruviana ed un gruppo di sacerdoti, missionari ed operatori pastorali che lavorano nella zona.  Secondo quanto affermano i Vescovi, “per molti analisti, l’Amazzonia è oggi la seconda regione geopolitica più strategica del mondo e del Perù e rappresenta più del 60 per cento del territorio nazionale” con una grande diversità biologica e culturale. “Tuttavia, constatiamo che grandi settori della popolazione amazzonica vivono in condizioni di estrema povertà e senza possibilità di una vita degna”. In particolare i Vescovi sono preoccupati soprattutto per “i processi di investimento privato nella Selva; i disegni di legge 840 (denominata “Legge della Selva”); le concessioni e le aggiudicazioni delle terre e dei boschi; l’esplorazione e lo sfruttamento minerario e l’industria petrolifera, poiché possono minacciare la sopravvivenza fisica e socio-culturale dei paesi indigeni ed incrementare i conflitti socio-ambientali nell’Amazzonia”.
I Vescovi ravvisano la necessità di elaborare politiche di sviluppo che includano il territorio amazzone, ma che non devono essere contrarie al rispetto delle culture esistenti, all’ecosistema e ai diritti umani. Secondo i Vescovi, al momento di elaborare politiche di sviluppo della Selva vanno tenute in considerazione “la sicurezza giuridica dei territori indigeni, la relazione dei paesi indigeni con questi territori, il rispetto verso le loro istituzioni e le autorità, il diritto di consultazione, la partecipazione civica e l’attenzione all’ecosistema”.  I Vescovi delle giurisdizioni ecclesiastiche della Selva peruviana lanciano pertanto un appello allo Stato affinché promuova “una partecipazione effettiva dei propri cittadini nel disegnare e mettere in pratica le politiche di sviluppo del Paese, in ottemperanza alle norme internazionali sottoscritte per la difesa dei diritti umani nei paesi indigeni”. “L’Amazzonia è parte importante delle Indie e del Perù. Restiamo tutti uniti per la difesa della vita, dei valori e dello sviluppo dei paesi indigeni dell’Amazzonia peruviana” conclude il comunicato.

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