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IL PAPA AI PARROCI ROMANI: SIATE UOMINI CON IL CUORE DI DIO, ANNUNCIATE LA VERITÀ ANCHE SE SCOMODA

BENEDETTO XVI (Città del Vaticano) – Il sacerdote non è un “amministratore”, ma un uomo scelto da Dio per imitare Cristo, che sa come Lui essere umile, amare l’umanità, avere sensibilità per i poveri, sostenere con coraggio la Chiesa là dove essa è minacciata. Con un’articolata lectio divina ispirata dal capitolo 20 degli Atti degli apostoli, Benedetto XVI si è intrattenuto stamattina con i sacerdoti della diocesi di Roma, guidati dal cardinale vicario, Agostino Vallini, nel tradizionale incontro annuale svoltosi nell’Aula della Benedizione. Avere l’occhio di Dio, non quello del burocrate. Non c’è alternativa per un sacerdote. San Paolo lo aveva compreso e San Luca descritto in quel capitolo degli Atti degli Apostoli che il Papa ha definito come “destinato agli uomini di ogni tempo”. L’attualità del testo antico è diventata materia di riflessione per il prete del tempo moderno, centellinata dal Pontefice frase dopo frase. Il sacerdote, ha affermato, anzitutto “non è un padrone della fede”: “Prete non si è a tempo solo parziale; si è sempre, con tutta l’anima, con tutto il nostro cuore. Questo essere con Cristo ed essere ambasciatore di Cristo, questo essere per gli altri è una missione che penetra il nostro essere e deve sempre più penetrare nella totalità del nostro essere”.

Il servizio, ha proseguito Benedetto XVI, chiama l’umiltà. Che non è esibizione di “falsa modestia” ma amore per la volontà di Dio, che proprio grazie all’umiltà del servitore può essere annunciata nella sua integrità, senza condizionamenti o preferenze, e senza “creare l’idea che il cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare”: “Questo è importante: non predica un cristianesimo à la carte, secondo i gusti propri, predicando un Vangelo secondo le proprie idee preferite, secondo le proprie idee teologiche: non si sottrae dall’annunciare tutta, tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non mi piacciano tanto”. Il testo paolino ha poi suggerito al Pontefice spunti di riflessione sul tema della conversione del cuore. “Conversione”, ha detto il Papa, è soprattutto quella del pensiero e del cuore, per cui la realtà non sono le cose tangibili o i fatti del mondo così come si presentano, ma realtà è riconoscere la presenza di Dio nel mondo. Da questa visione il sacerdote deve condurre la sua “corsa” nel mondo, senza mai perdere – ha raccomandato Benedetto XVI – lo smalto degli inizi: “Non perdiamo lo zelo, la gioia di essere chiamati dal Signore (…) lasciamoci rinnovare la nostra gioventù spirituale (…) la gioia di poter andare con Cristo fino alla fine, di ‘condurre a termine la corsa’ sempre nell’entusiasmo di essere chiamati da Cristo per questo grande servizio”.

Il sacerdote, come Paolo, ha affermato il Papa non deve pensare alla sua mera “sopravvivenza biologica”. Certo, custodirsi è doveroso, ma non dimenticando che l’offerta di sé, anche fino al dono della vita, assimila il sacerdote al suo modello, Cristo: “Solo Dio può farci sacerdoti, solo Dio può scegliere i suoi sacerdoti e se siamo scelti, siamo scelti da Lui. Qui appare chiaramente il carattere sacramentale del presbiterato e del sacerdozio, che non è una professione che dev’essere fatta perché qualcuno deve amministrare tutte le cose (…) E’ un’elezione dallo Spirito Santo”. Pio XI, ha ricordato Benedetto XVI, rimarcava il problema della “la sonnolenza dei buoni”, cioè la mancanza di argini che spesso gli stessi cristiani oppongono alle forze del male. Il sacerdote, ha ribadito, è chiamato a “vegliare” e a pregare intensamente: “’Vegliate su voi stessi’: siamo attenti anche alla nostra vita spirituale, al nostro essere con Cristo (…) pregare e meditare la Parola di Dio non è tempo perso per la cura delle anime, ma è condizione perché possiamo essere realmente in contatto con il Signore e così parlare di prima mano dal Signore agli altri”.

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LO SCRITTORE: CHE FINE HA FATTO NEI RAGAZZI IL PIACERE DELLA LETTURA?

SCUOLA – How to raise boys who read. Così titola un recente e interessante articolo del Wall Street Journal. La questione è di quelle grosse e sembra davvero universale: come far leggere i ragazzi, in particolare i maschi. Se la questione è grossa la soluzione più spesso perseguita è grossier per dirla alla francese; si parla infatti dei gross-out books. L’articolo americano sottolinea come in effetti gli scaffali si siano riempiti di libri che gli editori hanno creduto poter interessare ai ragazzi per il solo fatto di essere pieni di riferimenti a parti del corpo così come alle sue funzioni più elementari. Tra mutande e loro capitani e gas vari pare che un libro per attrarre i giovani uomini debba essere per forza lutulento e grossolano. In alternativa si pensano (e si vendono) quei libri che non chiedono di essere letti, libri-oggetto solamente da possedere, accattivanti nelle copertine e nei titoli, indipendentemente dal loro contenuto. Libri seriali da collezione. Col crescere dell’età sembra che debbano poi necessariamente farsi strada argomenti più pruriginosi con una malizia più o meno dichiarata a soddisfare curiosità sempre più difficili da appagare. Il linguaggio diventa slang, si impoverisce e si fa triviale. L’esito è sotto gli occhi di tutti: i giovani leggono poco e chi legge è per lo più femmina.

La questione mi interpella particolarmente come scrittore, soprattutto per ragazzi. La prima domanda che infatti mi pongo quando una bella storia mi incontra e mi chiede di essere raccontata è: per chi la scrivo? Non si tratta solo di una questione tecnica: il formato del libro, il numero delle battute, la presenza di illustrazioni. No, si tratta di pensare lingua, contenuto e forma per chi volterà le pagine. Ogni volta che scriviamo un libro per i giovani, ma anche ogni volta che lo scegliamo magari per regalarlo o solo per proporlo, non dobbiamo mai sottostimare, anzi disistimare il pensiero dei ragazzi. Non dobbiamo fare innanzitutto noi l’errore di abbassare il tiro, di vederli come un branco di brufolosi preda degli ormoni e di presunti istinti proponendo stereotipi più o meno moderni. Scrivere per loro, soprattutto scrivere qualcosa che possa piacere e interessarli, significa saper cogliere i desideri e le domande di cui sono portatori e rappresentarle all’interno di una storia credibile, non necessariamente verosimile. Ciò che infatti permette la necessaria identificazione del lettore è ritrovare tratti di sé nei temporanei compagni di carta. Sarà vedere come riescono ad affrontare le situazioni e risolvere questioni personali che offrirà spunti di pensiero, farà sentire meno soli, proponendo possibili soluzioni che altrimenti non verrebbero in mente.

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COSÌ MEDICI E FILOSOFI MANTENGONO IN VITA L’EUGENETICA

CRONACA – Cacciata (in apparenza) dalla porta, l’eugenetica rientra dalla finestra. E con che forza! Nell’ultimo numero del Journal of Medicine and Phylosophy, si spiega un fatto nuovo: alcuni filosofi ormai reputano obbligatorio “migliorare” la specie umana tramite le nuove tecnologie, anche obbligando i riottosi. Gli autori dell’articolo mettono in questione quest’obbligo, ma quello che è chiaro è che l’eugenetica è tornata. Uno studio di qualche anno fa (JAMA, novembre 2000) mostrava la percentuale di medici europei che pensa che la morte sia preferibile ad avere un handicap. I valori sono davvero alti: se si parla di vivere con handicap mentale grave, i medici che pensano che sia meglio vivere piuttosto che morire va dall’ 1% (Olanda) al 26% (Italia); mentre quelli che pensano che piuttosto che morire, sia meglio vivere anche con un handicap fisico grave va dall’8% (Olanda) al 63% (Ungheria).

Questo dato è inquietante, perché mostra come tra gli stessi medici, che dovrebbero mettere il curare come primo fine del loro lavoro (tranne quando la cura sia dichiaratamente inutile), c’è un senso di inutilità nel curare chi ha una disabilità grave, tanto che percentuali altissime di loro pensano che è meglio per il paziente con disabilità grave morire. Oltretutto, questo valore dato alla vita umana era direttamente in relazione con la tendenza che i medici stessi hanno a sospendere le cure in caso di prognosi grave. Questi dati mostrano una paura verso la disabilità in sé e verso il limite che acquisterebbe la propria vita se perdesse certe caratteristiche, e ci riportano alla recente indagine Censis che mostra (dicembre 2010) che i nostri contemporanei hanno perso un dato importante della loro umanità: il “desiderio”. Per il Censis, appagati i traguardi che ci si prefiggeva in passato (dalla casa di proprietà alla possibilità di andare in vacanza o possedere beni) ci si confronta oggi con la frenetica rincorsa a oggetti «in realtà mai desiderati». Ma il desiderio non cala quando sparisce la materia da desiderare, ma quando crolla miseramente l’io umano, che ha come caratteristica intrinseca proprio una salutare insoddisfazione perché, come scriveva Montale, “tutte le immagini portano scritto: Più in là”.

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LA CHIESA PROPONE NEI SANTI MODELLI DI VITA CRISTIANA. “PERCHÉ I SANTI” L’EDITORIALE DI P. LOMBARDI

SULLE VIE DELLA SANTITA’ – Fra poco più di una settimana la Chiesa celebrerà la Solennità di Tutti i Santi. Ieri è stata avviata la fase diocesana della causa di Beatificazione di un grande testimone della fede, il cardinale vietnamita Xavier Nguyên Van Thuân, mentre il 17 ottobre scorso il Papa ha proclamato 6 nuovi Santi facendo accorrere in San Pietro pellegrini di tutto il mondo. Ascoltiamo in proposito la riflessione del nostro direttore, padre Federico Lombardi, nel suo editoriale per “Octava Dies”, il settimanale informativo del Centro Televisivo Vaticano:

Le canonizzazioni del 17 ottobre sono state un po’ particolari. Soprattutto due fra i nuovi Santi hanno mobilitato un interesse molto speciale nei loro Paesi. Parliamo di Mary MacKillop e il Fratel André Bessette. Gli altri Santi e Sante erano italiani, spagnoli, polacchi…e perciò – pur grandissimi – non erano una novità assoluta… ma l’Australia non aveva ancora avuto una santa e anche il Canada aveva minore familiarità con le canonizzazioni. Gruppi di migliaia di pellegrini hanno affrontato viaggi lunghissimi e costosi per essere presenti in Piazza San Pietro; molti giornalisti e troupes televisive sono venuti a Roma per scrivere articoli, fare reportages, interviste, dirette sulla cerimonia e gli altri festeggiamenti. Di solito i media si muovono quando capiscono che c’è un interesse popolare ampio e diffuso. Insomma. La Chiesa propone solennemente nei Santi dei modelli di vita cristiana, ma lo fa riconoscendo quello che il popolo perlopiù ha già capito: che certe persone incarnano il Vangelo con esemplarità straordinaria, e così diventano per chi li incontra degli amici spirituali, delle guide affascinanti per arrivare all’amore di Dio, alla fede, alla speranza. Le canonizzazioni sono il riconoscimento che lo Spirito di Dio soffia in persone comuni, come Mary e Fratel André, e produce frutti di virtù che sono fonte di conforto e luce per moltissimi altri. La canonizzazione è veramente una festa. Alcuni santi vengono riconosciuti solennemente; la grande maggioranza non diventano universalmente famosi, ma diffondono ugualmente attorno a loro fede, speranza, amore. Questo è il lato più bello della Chiesa. Nella Chiesa tutto il resto è al servizio di uomini e donne di ogni Paese e condizione, perché possano camminare incontro a Dio sulle vie della santità. Impariamo a vedere la Chiesa in questa prospettiva e a rinnovarla continuamente, cominciando da noi.

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LO SPIRITO CHIAMA A RACCOLTA CHI SI RICONOSCE NEL VANGELO. SI TRATTA DI DIVENTARE TESTIMONI.

RIFLESSIONE – Mi ha molto colpito l’affermazione di Papa Giovanni XXIII, riportata in un articolo di Ferdinando Castelli sull’Osservatore Romano: “Lo Spirito Santo ha scelto me. Si vede che vuole lavorare da solo. Mi sembra a volte di essere un sacco vuoto che lo Spirito Santo riempie improvvisamente di forza”. Sa di umorismo ma è anche un invito “alla fiducia e alla pace interiore”. Fiducia nell’opera di Dio, pace che nasce dal sapere che non ci lascia soli, neppure nella tormenta e nei drammi del nostro tempo, neppure quando ci rendiamo conto della nostra povertà e del senso di impotenza che ci prende di fronte al crescere della “impopolarità di Dio” e della sua “Chiesa”, alle difficoltà che abbiamo a vivere da cristiani, a testimoniare il Vangelo ai ragazzi e ai giovani, alle famiglie, a quanti, venendo da oltre confine, si confrontano con la nostra Religione.

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GIOVANI IN CERCA DI LAVORO: UNO SU DUE SI FA ACCOMPAGNARE DAI GENITORI

LAVORO – Secondo una indagine condotta nell’area fiorentina e pratese, quasi un ragazzo su due si presenta al primo colloquio di lavoro accompagnato dai genitori. È stata la Fondazione Spazio reale di San Donnino, di cui don Giovanni Momigli è presidente, a promuovere la ricerca sui giovani in cerca di lavoro. “Negli incontri per l’orientamento al lavoro – ha spiegato don Momigli –, quasi il 50% dei candidati, ragazzi e ragazze tra i 20 e i 27 anni, è venuto ‘sostenuto’ da un genitore, sia perché sovente è il genitore che si presenta a nome del figlio o della figlia per domandare informazioni e opportunità, sia perché il giovane viene addirittura accompagnato da una genitore al primo colloquio”. Il dato si è rivelato in linea con i risultati della successiva indagine: alla Cna di Firenze, ad esempio, il 45% dei giovani si presenta per un colloquio di lavoro accompagnato, o preceduto per il primo contatto informativo, da un genitore. Le informazioni e i dati raccolti sono stati presentati ieri in un seminario che si è tenuto in sala Gonfalone di Palazzo Panciatichi: “Il protagonismo della famiglia nella ricerca del lavoro dei giovani”. Sono state condotte circa 50 interviste a imprenditori fiorentini, distribuiti 50 questionari a responsabili di centri per l’impiego, piccole e medie aziende ed agenzie interinali, sottoposti 150 test a giovani (età media dai 20 ai 25 anni) e 50 a genitori di ragazzi di età compresa tra 20 e 25 anni.

“Siamo di fronte ad un elemento di arretratezza che appesantisce il sistema produttivo – ha spiegato il sociologo Giulio De Rita, amministratore di Léghein, società di ricerche e consulenze etiche −. I genitori, che ormai hanno perso il controllo su quasi tutte le altre fasi della vita dei propri figli, continuano ad esercitare un condizionamento in un campo, quello del lavoro, in cui non hanno più competenze aggiornate”. A Prato, ha aggiunto De Rita, “abbiamo trovato tante mamme che sconsigliano ai figli di andare a lavorare in fabbrica. Persiste un clima psicologico cupo, l’82% dei giovani si dice convinto che oggi sia più difficile trovare lavoro, pensando in realtà al posto fisso”.

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MOLISE – LA REGIONE FINANZIA UN MASTER PER I GIOVANI STUDENTI MOLISANI

CAMPOBASSO – Partecipare a un Master di alta formazione per i giovani laureati è ora più semplice grazie al contributo della regione Molise. Visto, infatti il grosso successo riscosso dalla sperimentazione effettuata nel recente passato, la Regione ha previsto lo stanziamento di 500 mila euro in contributi economici per la partecipazione al Master. Tutte le candidature potranno pervenire dalla pubblicazione del bando sul B.U.R.M. e potranno essere riferite all’Anno Accademico 2008/2009. In questo modo viene data, ai giovani meritevoli di partecipare a corsi e master formativi di alto livello, la possibilità di implementare il loro bagaglio di conoscenze, da sfruttare utilmente in attività lavorative di vario genere. “E’ evidente- sottolinea il presidente della Regione Michele Iorio- che per una formazione di qualità occorrono risorse consistenti che non tutte le famiglie hanno a disposizione”.

Per questo motivo, la Regione si impegna a sostenere economicamente questa preparazione, in modo da indirizzare i ragazzi molisani ad un futuro migliore. “Attingendo anche al Fondo Sociale Europeo- ha sottolineato l’assessore Angela Fusco Perrella- la Regione ha inoltre finanziato il Bando Triennale per l’attribuzione di contributi per la creazione d’impresa. Il progetto, denominato “Giovani al lavoro”, si propone di promuovere e potenziare la componente giovanile e, in particolare, quella femminile nel mondo lavorativo”. Per cui, maggiori opportunità per l’occupazione giovanile, soprattutto in considerazione delle crescenti difficoltà che i ragazzi molisani incontrano per entrare nel mondo del lavoro.

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L’IPOCRISIA DI XAVIER JACOBELLI, DIRETTORE DEL QUOTIDIANO NAZIONALE. QUANDO SI SCRIVE PER SCRIVERE

ROMA – Quanta mediocrità nei ‘giornaloni’! Quante ‘false verità’ e quanta ipocrisia! Solamente oggi ci viene segnalato un articolo del Direttore del quotidiano Nazionale Xavier Jacobelli, conosciuto giornalista, che commenta con un titolo ad effetto la visita recente del Santo Padre Benedetto XVI a Pompei, calcando la mano per il mancato intervnto del Papa sulla camorra. Direttore, ma si ricorda solo un anno fa che cosa ha detto il Papa a Napoli, oppure il dimenticatoio le ha già divorato i ricordi? Si scrive per scrivere, mettendo in assoluta cattiva luce il Papa che con coraggio e determinazione ha alzato la voce proprio contro la camorra un anno fa. E se oggi a Napoli la camorra viene combattuta e talvolta stroncata di chi è merito? Del Quotidiano Nazionale?

Intanto leggiamo l’articolo di Jacobelli.

IL COMMENTO
Se Benedetto XVI si fosse ricordato
del grido di Giovanni Paolo II contro la mafia

Durante il pellegrinaggio a Pompei, il pontefice non nomina mai la camorra, con il pretesto che tacere significa ‘rispettare i campani onesti’

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IL PAPA DURANTE LA CATECHESI: LA CHIESA NON È UN’ASSOCIAZIONE, MA UNA COMUNITÀ “CONVOCATA DA DIO”

CITTA’ DEL VATICANO – La Chiesa non è un’associazione, ma una comunità “convocata da Dio”: per poter allora essere veramente “Chiesa”, intesa, con San Paolo, come “luogo ove Dio abita realmente”, come “struttura comunitaria di calde relazioni interpersonali di carattere familiare” dobbiamo essere “luogo della carità di Dio”, della sua “presenza in questo mondo e nella nostra storia”. Continuando ad illustrare la vita ed il pensiero di San Paolo, Benedetto XVI ha parlato oggi alle quasi 30mila persone presenti in Piazza San Pietro per l’udienza generale di San Paolo e la Chiesa. La parola, ha ricordato, “è presa dal greco ekklesia, che viene dall’Antico Testamento e significa l’assemblea del popolo di Israele convocata da Dio”. “Ora è la nuova comunità dei credenti in Cristo”. Il termine indica da una parte “le assemblee di Dio in determinati luoghi, ma anche una unità, tutta la Chiesa nel suo insieme” che “così non è solo la somma delle diverse Chiese locali, ma le diverse Chiese locali tutte insieme sono la Chiesa di Dio, che precede le Chiese locali e si realizza in queste”. Paolo poi parla quasi sempre di “Chiesa di Dio”, ciò indica che “è Dio che l’ha convocata”, che “l’unità di Dio crea l’unita della Chiesa ovunque si trova”. L’unica Chiesa di Dio, “sposa di Cristo”. “Paolo sapeva – ha proseguito Benedetto XVI – che non solo non si diventa cristiani per coercizione, ma che nella nuova conformazione anche la componente istituzionale della Chiesa era legata ad un annuncio diretto a tutti i popoli, annuncio che li unisce come unico popolo di Dio”. “Sappiamo – ha proseguito il Papa – che il giovane Paolo era avversario di questo nuovo movimento della Chiesa di Cristo, perché vedeva minacciata la fedeltà alla tradizione” e “la fede nel Dio unico”, che si esprimeva attraverso la circoncisione, la purezza cultuale, il rispetto del sabato… la fedeltà a tutto questo gli ebrei “avevano pagato col sangue”.

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SUCCESSO DELLA RIVISTA “PAULUS”, INIZIATIVA EDITORIALE NATA CON L’ANNO PAOLINO

CITTA’ DEL VATICANO – E’ uscito il numero di ottobre del mensile “Paulus”, la rivista interamente dedicata a San Paolo. Nata con 64 pagine a colori, la rivista che accompagna l’Anno Paolino indetto da Benedetto XVI, raggiunge in questo quarto numero le 80 pagine. Ma a cosa è dovuto questo incremento? Rosario Tronnolone di Radio Vaticana lo ha chiesto al direttore responsabile della rivista, don Primo Gironi:

R. – Il motivo è dovuto al fatto che desideriamo presentare su Paulus le 13 lettere dell’Apostolo, e questo, inserendo anche il testo, necessita di maggiore spazio, quindi di una maggiore fogliazione. Noi siamo contenti, perché di numero in numero i nostri lettori entrano nello spirito dell’apostolo, comprendono la lettera, che viene spiegata, e mettono anche in chiaro quanto Benedetto XVI ci ha proposto con questo anno paolino, di conoscere l’apostolo Paolo e di sentirlo vivo, sentirlo parlare oggi nel nostro ambiente, nel nostro mondo.

D. – Il dossier di questo mese è dedicato ad una delle lettere paoline, la prima lettera ai Tessalonicesi. Si esamina questo testo così importante della spiritualità di San Paolo, attraverso diverse prospettive. Quali sono?

R. – Nel presentare le singole lettere innanzitutto abbiamo iniziato con la prima ai Tessalonicesi, che è lo scritto più antico del cristianesimo, e abbiamo desiderato accostarci a questa lettera, come a tutte le altre, con una triplice lettura. Una è quella della nostra tradizione cattolica. Poi abbiamo interpellato anche due diversi autori, uno per la lettura delle Chiese evangeliche e delle Chiese riformate, e l’altro della Chiesa sorella ortodossa. Così abbiamo l’accostamento alle lettere di San Paolo, ad un livello ecumenico, anche più esteso ed anche maggiormente comprensibile.

D. – E poi parliamo di un’iniziativa molto simpatica, molto particolare: la proposta di scrivere San Paolo all’albo dei giornalisti honoris causa…

R. – Una bella sorpresa anche per noi, perchè ci è arrivata questa lettera di un lettore molto attento, che vista la grande, ampia attività di scrittore di Paolo, visto anche come colui che ha scritto anche prima degli evangelisti, si chiede e ci chiede, perché non dare a Paolo questo titolo di giornalista e darglielo honoris causa, visto che a quell’epoca certamente non c’era l’ordine dei giornalisti?

Fonte: www.papaboys.it

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